Espressione facciale delle emozioni animali e correlati cerebrali

 

 

GIOVANNA REZZONI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 11 aprile 2020.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Il sussiego ai convegni, durante l’ascolto di oratori che presentavano studi di comparazione dell’affettività animale con quella umana, esprimeva meglio di ogni parola la distanza che l’aristocrazia psichiatrica continentale di fine millennio poneva fra sé e quei colleghi, spesso rei di costituire fonte di ispirazione per i “biechi organicisti” che negavano valore sostanziale per lo psichismo della nostra specie a quella dimensione di sensibilità a fondamento dell’arte, della scienza e della spiritualità che hanno caratterizzato le civiltà della storia.

Lo studio comparato, secondo tali colleghi, poteva giustificarsi per l’utilità strumentale dell’indagine neurobiologica finalizzata all’approdo farmacoterapeutico, visto come un “male necessario”, giustificabile in termini di utilità clinica, ma da confinare in contesti distanti da quelli della pratica psicoterapeutica, per evitare il rischio di pericolose “contaminazioni ideologiche” con rozze concezioni che riducevano il mondo dei sentimenti, dei progetti e dell’etica umana agli istinti di un topo.

Mentre i neurobiologi, per comprendere le regole interne dei circuiti neuronici, scendevano nel grado di complessità dei sistemi nervosi adottando come organismi modello insetti quali Drosophila melanogaster, piccoli pesci tipo Danio rerio (zebrafish) o molluschi come Aplysia californica, la cultura popolare, che attraverso l’ideologia politica esercitava notevole pressione sull’insegnamento universitario, aveva diviso gli psichiatri in buoni e cattivi. I primi erano quelli che approcciavano i pazienti stabilendo un rapporto umano finalizzato alla conoscenza psicologica, i secondi erano quelli che, sulla base di un riduzionismo biologistico, consideravano di proprio esclusivo interesse l’oggetto psichiatrico, di cui il paziente era portatore, e limitavano la relazione terapeutica alla somministrazione di farmaci. Naturalmente si trattava di un’esasperazione, se non proprio di una forzatura caricaturale, di una dicotomia realmente esistente. Per oltre un decennio sono rimaste nella coscienza collettiva le immagini di uomini trasformati in grandi ratti di laboratorio nel film Mon Oncle d’Amerique[1], cui prese parte lo stesso Henri Laborit che aveva introdotto in terapia il primo neurolettico, il largactil. In realtà, Laborit riprendeva le tesi dell’origine dei disturbi mentali dalla repressione della reazione elementare di fuga o attacco, postulate da Walter Cannon, in contrapposizione con le teorie freudiane ritornate in auge.

L’estremizzazione ideologizzata delle tesi produsse una divisione inconciliabile fra riduzionismo e olismo in psichiatria. Ancora vent’anni or sono, la ragionevole soluzione di una realtà da studiare per livelli di analisi che comportano conoscenze circoscrivibili a ciascun livello e nozioni esportabili attraverso ragionamenti sottoposti a verifica sperimentale, era accettata con riserve ai convegni, quando non era contestata apertamente[2].

La conoscenza di appunti sperimentali sulla “filogenesi delle espressioni emotive” oggi dovrebbe essere patrimonio comune di psichiatri e psicologi, e non solo argomento di interesse neuroscientifico di base.

Attualmente la ricerca neuroscientifica sulle emozioni è resa difficile dalla mancanza di precisi schemi di lettura degli stati emotivi negli organismi modello, impiegati a scopo sperimentale. A questo problema ha cercato di porre rimedio il gruppo di Nejc Dolensek identificando, nel topo, espressioni facciali come riflessi innati e sensibili dello stato emozionale interno. Le espressioni facciali del topo, evocate da vari tipi di stimoli, sono state classificate in categorie simil-emozionali, corrispondenti agli stati emotivi umani di base.

Algoritmi di apprendimento computerizzati hanno consentito ai ricercatori di categorizzare le espressioni facciali murine in forma obiettiva e in termini quantitativi, nella scala temporale dei millisecondi. Intensità, valore e persistenza degli stati emozionali soggettivi possono così essere decodificati in singoli animali.

Combinando le analisi delle espressioni facciali con l’imaging bi-fotonico del calcio è stata possibile l’identificazione di singoli neuroni la cui attività era strettamente correlata a specifiche espressioni facciali nella corteccia dell’insula, regione cerebrale importante nell’elaborazione di esperienze affettive nella nostra specie.

(Dolensek N., et al., Facial expression of emotion states and their neuronal correlates in mice. Science 368 (6486): 89-94, April 3, 2020).

La provenienza degli autori è la seguente: Circuits for Emotion Research Group, Max Planck Institute of Neurobiology, Martinsried (Germania); Graduate School of Systemic Neurosciences, Ludwig-Maximilians University, Munich (Germania); International Max Planck Research School for Molecular Life Sciences, Munich (Germania).

L’inizio dello studio scientifico delle emozioni si fa risalire alle osservazioni di Charles Darwin, il padre dell’evoluzionismo, che descrisse in modo sistematico le espressioni del viso umano e la mimica animale, dimostrando che i nostri schemi motori principali per manifestare affetti ed emozioni non sono appresi culturalmente, ma sono innati e simili a quelli degli animali a noi più prossimi. In effetti, è difficile negare che la nostra esperienza degli stati emotivi, se si esclude la dimensione soggettiva, sia principalmente costituita dalla loro rappresentazione in espressioni facciali e comportamentali degli altri.

Darwin collocava l’uso di espressioni facciali all’epoca dei primi adattamenti sociali degli ominidi e scrisse che la mimica del volto, sebbene si sia affinata in un esteso repertorio, quale è quello in nostro possesso, nella sostanza corrisponde alla gamma osservabile nelle scimmie antropomorfe. Una differenza reale consiste nell’efficace comunicazione di uno stato interno con la frequente combinazione fra espressione del viso e atteggiamento posturale, che nella nostra specie è quasi del tutto scomparsa. Donald Merlin ha così sintetizzato l’opinione dello scopritore dell’evoluzione: “Espressioni facciali molto elaborate, accompagnate da suoni atti a esprimere emozioni, così caratteristici dell’uomo, sono efficaci mezzi di comunicazione immediata e riflettono l’intimità regnante nei gruppi sociali in cui Homo evidentemente viveva. Come Darwin affermò, nei gruppi poco numerosi l’espressione facciale è un efficientissimo mezzo di comunicazione di emozioni, e l’ampio uso che ne facciamo tuttora, pur possedendo un linguaggio articolato di grandissima efficacia, è un vestigio di questo antico adattamento”[3].

Se da un canto i biologi evoluzionisti osservano che la combinazione fra espressioni facciali e suoni vocali è stato uno straordinario mezzo di comunicazione di affetti che è andato affinandosi nei primati fino alle grandi antropomorfe, dall’altro ribadiscono quanto era già stato intuito da Darwin, ossia che l’evoluzione delle espressioni facciali non ha rappresentato un precursore del linguaggio verbale, ma ha seguito una linea di sviluppo indipendente, così da differenziarsi e specializzarsi parallelamente alle abilità di comunicazione cognitiva mediante la parola ed ogni altro codice di simboli.

Fra gli studiosi dell’evoluzione delle espressioni facciali, Izard ha rilevato che la loro importanza nei mammiferi cresce lungo la filogenesi, aumentando nelle specie più evolute e, in larga misura, è associata al numero e alle funzioni dei muscoli del viso, massimamente sviluppate nel genere Homo, insieme con le modulazioni volontarie[4].

L’etologo austriaco Irenäus Eibl-Eibesfeldt, filmando bambini nati sordi e ciechi, ha accertato che le loro espressioni facciali di base legate a riso, sorriso, pianto, rabbia e sorpresa ricorrevano in modo appropriato nonostante i deficit percettivi. I bambini ciechi presentavano lo stesso pattern di sviluppo del sorriso dei bambini fisiologicamente dotati della vista, evidenziando che l’evoluzione post-natale di questa abilità mimica è già prefissata come tappa di maturazione neurologica indipendente dalle informazioni ambientali[5].

Un altro contributo importante di Eibl-Eibesfeldt e colleghi è il collegamento tra una serie di espressioni adoperate volontariamente per comunicare stati mentali affettivi e schemi neuromotori innati: usando sequenze di immagini al rallentatore hanno identificato numerosi modelli interculturali. Ad esempio, in tante realtà culturali diverse, le madri per disapprovare i figli, come si dice in gergo, “li guardano storto” o “fanno delle occhiatacce”, ossia fermano lo sguardo dirigendo i globi oculari lateralmente in modo da mostrare loro il bianco della sclera, senza alzare le sopracciglia[6].

Paul Ekman, dopo una vastissima raccolta di dati, ha definito un vero e proprio codice delle espressioni naturali del viso umano; già nel 1978 con Friesen aveva elaborato, sulla scorta degli studi di Hjortsjo, un Facial Action Coding System (FACS), consistente nella descrizione di un repertorio di espressioni emozionali transculturali. Successivamente Ekman e Friesen hanno realizzato un metodo per l’interpretazione (EMFACS) che riportava tutti gli atteggiamenti del viso a 6 classi di stati emotivi[7]. Oster nel 1993 ha elaborato un equivalente del FACS per neonati e lattanti.

Nei primi anni del 2000 il lavoro di Paul Ekman ha suscitato grande interesse e ha suggerito la possibilità di applicazioni anche in ambito medico-legale, oltre che nella ricerca psicologica, e ha offerto spunti per trame narrative[8]. Freitas-Magalhães nel 2018 ha realizzato sulla base del FACS un sistema di riconoscimento elettronico tridimensionale delle espressioni del viso umano.

La maggior parte degli studiosi, seguendo il criterio evoluzionistico prevalente e basando il valore delle manifestazioni mimiche emozionali sullo sviluppo psiconeuromotorio dei primati, ha ritenuto fino a tempi molto recenti che le espressioni delle emozioni nell’area facciale fossero assenti in vertebrati inferiori come i roditori.

Per questa ragione, gli studi come quello di Nejc Dolensek e colleghi acquistano un maggior rilievo. Infatti, la comprensione delle basi neurobiologiche delle emozioni richiede un’identificazione univoca e sicura dello stato emozionale dalle espressioni riconoscibili, quale condizione necessaria per poter scoprire i correlati neurofunzionali di quel particolare stato, e nei modelli animali, costituiti da mammiferi con un sistema nervoso molto più semplice di quello dei primati, è possibile individuare una traccia schematica che potrà aiutare nella decodifica dei pattern umani.

I ricercatori tedeschi hanno rilevato che i topi presentano espressioni facciali stereotipate in risposta ad eventi salienti in termini emozionali, così come per effetto di specifiche manipolazioni nei circuiti neuronici rilevanti per le emozioni.

Nejc Dolensek e colleghi, per classificare le espressioni dei topi in categorie distinte, hanno adoperato l’apprendimento automatico (machine learning), uno strumento dell’intelligenza artificiale che impiega metodi statistici per migliorare progressivamente la performance di un algoritmo nell’identificare pattern nei dati. Le manifestazioni mimiche facciali dei roditori riflettevano il cambiamento del valore intrinseco dello stesso stimolo sensoriale incontrato in differenti condizioni omeostatiche o affettive, e hanno rivelato precisi caratteri delle emozioni, quali intensità, valenza e persistenza. L’imaging bi-fotonico ha consentito di scoprire l’attività dei neuroni della corteccia dell’insula specificamente correlata con ciascun tipo di espressione facciale emozionale, suggerendo che ciascun pattern di funzione delle cellule nervose insulari rappresenti il processo di codifica particolare per quella classe di emozioni.

Il dettaglio delle immagini rilevate, riprodotte nel testo dell’articolo originale, documenta in modo convincente la possibilità di inferire correttamente lo stato neurofunzionale del cervello murino dalle espressioni facciali, e incoraggia il prosieguo della ricerca in questo campo.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di studi di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni

BM&L-11 aprile 2020

www.brainmindlife.org

 

 

 

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La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.

 

 

 

 

 

 



[1] Il film di Alain Resnais con Gerard Depardieu uscì in Francia nel 1980, ma sue versioni televisive, in DVD e video su YouTube, così come il libro Mon Oncle d’Amerique che il regista scrisse con Jean Grualt, sono ancora in circolazione, dopo una diffusione planetaria nelle principali lingue del mondo.

[2] Giuseppe Perrella è stato fautore di questo approccio ragionato, secondo una concezione che ha contribuito alla nascita della casa comune delle neuroscienze in cui ciascuna competenza, da quelle scientifiche di base a quelle di relazione interumana, può interagire con le altre, senza la pretesa per alcun paradigma metodologico di essere esclusivo, negando l’esistenza di livelli di complessità crescenti dalle molecole cerebrali della neurochimica alle società umane. La concezione del nostro presidente è radicata nell’insegnamento di Steven Rose, uno dei fondatori della moderna neurobiologia, che ha proposto fin dagli anni Settanta un criterio di analisi per livelli, da quello della fisica a quello della sociologia, per la corretta collocazione del sapere biologico nelle scienze dell’uomo. Rose veniva dalla biochimica, che collocava al secondo gradino della scala gerarchica, e integrava il suo sapere biologico nelle conoscenze sociologiche della moglie Hilary Rose, considerate al livello di sintesi più elevata.

[3] Donald Merlin, L’Evoluzione della Mente, pp. 48-49, Garzanti, Milano 1996.

[4] Cfr. Donald Merlin, op. cit., p. 215.

[5] La differenza è che all’incirca dal sesto mese il sorriso si associa progressivamente sempre più alla voce della madre e al sentirsi toccare, invece che alla percezione del viso, come nei bambini vedenti. Cfr. Eibl-Eibesfeldt I., Etologia umana. Le basi biologiche e culturali del comportamento. Bollati Boringhieri, Torino 2001.

[6] Eibl-Eibesfeldt I. et al., cit. in Donald Merlin, op. cit., p. 223. Sono poi stati individuati numerosi modelli di movimento oculare universali

 

[7] Cfr. Ekman P. et al. Universals and cultural differences in the judgments of facial expressions of emotion. Journal of Personality and Social Psychology 53 (4): 712-717, 1987.

[8] La Fox ha prodotto negli USA la serie Lie to Me (2009-2011) basata sulla capacità del protagonista, il dottor Lightman interpretato da Tim Roth, di scoprire contenuti mentali interpretando le espressioni dei volti.